Un’utile introduzione
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella risoluzione 55/196 del 20 dicembre 2002, aveva dichiarato il 2003 Anno Internazionale dell’Acqua, offrendo così l’occasione per riflettere e rivedere i rapporti tra le società umane, tra queste e l’ambiente, e per ripensare i processi di costruzione e di utilizzo del territorio. A quasi dieci anni di distanza da quella data appare sempre più evidente come per avviare una gestione sostenibile delle risorse idriche sia necessario il coinvolgimento delle comunità nazionali e internazionali e dei singoli cittadini che, anche in Italia, cominciano a confrontarsi con la pluralità di usi di questa risorsa, convergenti e contrapposti, con la multiscalarità del bene e, soprattutto, con la sua crescente scarsità. Ogni intervento per un uso più razionale della risorsa idrica deve necessariamente prevedere l’integrazione dei valori funzionali dell’acqua (risorsa materiale), con quelli culturali, psicologici, valoriali, che legano le società ai territori; scopo del presente contributo è quello di presentare un territorio, quello di Castelfranco Veneto fortemente segnato dalle acque.
Nella seconda metà del XVIII secolo Francesco Trevisan, un cittadino di Castelfranco autore di una singolare dissertazione medico-fisica descriveva infatti il centro osservando la campagna apparisse asciutta, ghiaiosa e scarsa di piantagioni – nella parte settentrionale della podesteria – mentre, al contrario, con le piantagioni abbondanti e le sorgenti piene e copiose nella parte meridionale in virtù delle diverse tipologie litologiche che condizionavano, ieri come oggi, in primo luogo il grado di permeabilità dei terreni, e di conseguenza la distribuzione delle stesse falde freatiche sotterranee. I terreni posti nella parte più settentrionale del distretto, più grossolani per struttura intrinseca e dunque con un potere drenante maggiore, non riuscivano infatti a trattenere l’umidità nei loro strati più superficiali, tendendo ad inaridirsi. Il problema della penuria d’acqua aveva suggerito, già nella seconda metà del XV secolo, l’escavazione di seriole derivanti dalla Brentella, al fine di consentire all’acqua del Piave di raggiungere parte degli assetati territori di Fanzolo, San Floriano, Albaredo, Riese, Vallà. Salvarosa, Salvatronda e Vedelago ma tali opere non avevano risolto se non minimamente il problema e questi terreni avevano continuato a soffrire di una tale situazione. Nella parte più meridionale invece, la diversa mescola di terreno, più ricca di colloidi, riusciva a trattenere più facilmente l’acqua abbondantemente provvista dalle falde freatiche. Queste, assai meno profonde, arrivavano progressivamente ad affiorare in superficie realizzando in quest’area il caratteristico fenomeno delle risorgive, vero e proprio spartiacque tra l’alta e la bassa pianura. Una tale abbondanza d’acqua era però anche causa di molteplici problemi di assetto idraulico in quanto determinava fenomeni di stagnazione e di impaludamento piuttosto estesi.
Utile quindi un’indagine sugli equilibri idrografici di Castelfranco, che punti ad una ricostruzione del fragile ed indissolubile rapporto esistente tra insediamento urbano ed acque.
I tratti geomorfologici
È la patria nostra, per saggia intelligenza di coloro che primi fondaronla, posta nel mezzo d’una vasta pianura, in tale distanza da’ colli, da’ monti, dall’acqua del mare e dalle sorgenti, che l’aria acuta e sottile di quelli, dalla più densa e crassa di queste, temperandosi, pura, equabile e tale a noi perviene, quale poco più oltre perfetta potrebbesi desiderare. È vero nondimeno che i monti e i colli essendo più vicine ch’el mare, e la campagna che quasi nuda di piantaggioni, e agli altri lati le piantaggioni abbondanti, e le sorgenti piene e copiose alquanto lontane, l’aria non può essere con tale proporzione e misura temperata.Scriveva così nella seconda metà del XVIII secolo Francesco Trevisan, un cittadino di Castelfranco autore di una singolare dissertazione medico-fisica. Alle sue osservazioni si può aggiungere che il territorio al quale si riferiva (Fig. 1) si colloca prevalentemente a nord della fascia delle risorgive – e dunque in alta pianura – e che i suoi valori altimetrici indicano un andamento digradante nella direttrice nord-ovest sud-est: dai 70-75 metri sul livello del mare rilevabili nella pare settentrionale dell’attuale comune di Loria, si scende infatti ai 25-30 metri nella parte meridionale dei comuni di Resana, Vedelago e Piombino Dese. Ed invero – continua il Trevisan nella sua dissertazione – noi siamo appunto collocati sull’estremo confine del terreno secco e ghiaioso che da qui fino a’ monti si estende, e dell’umido e molle che poco di sotto cominciando va fino al mare: onde avviene che né in soverchiamente secco terreno fondati, né al troppo umido sommamente vicini, possiamo godere dell’ottima temperatura dell’aria di sopra lodata. La campagna che ancora nel ‘700 appariva al Trevisan come asciutta, ghiaiosa e scarsa, ed a siti quasi nuda di piantagioni – nella parte settentrionale della podesteria – o, al contrario, con le piantagioni abbondanti e le sorgenti piene e copiose – la parte meridionale – doveva le sue caratteristiche alle diverse tipologie litologiche che condizionavano, ieri come oggi, in primo luogo il grado di permeabilità dei terreni, e di conseguenza la distribuzione delle stesse falde freatiche sotterranee. I terreni posti nella parte più settentrionale del distretto, più grossolani per struttura intrinseca e dunque con un potere drenante maggiore, non riuscivano infatti a trattenere l’umidità nei loro strati più superficiali, tendendo ad inaridirsi.Il problema della penuria d’acqua aveva suggerito, già nella seconda metà del XV secolo, l’escavazione di seriole derivanti dalla Brentella, al fine di consentire all’acqua del Piave di raggiungere parte degli assetati territori di Fanzolo, San Floriano, Albaredo, Riese, Vallà. Salvarosa, Salvatronda e Vedelago. Tali opere non avevano però risolto che in minima parte il problema e questi terreni avevano continuato a soffrire di una tale situazione, come testimoniano i conflitti che periodicamente si accendevano sull’uso della poca acqua a disposizione, soprattutto quando questa era scarsa e dunque insufficiente a soddisfare nel contempo le esigenze agricole e quelle molitorie. Nella parte più meridionale invece, la diversa mescola di terreno, più ricca di colloidi, riusciva a trattenere più facilmente l’acqua abbondantemente provvista dalle falde freatiche.
Queste, assai meno profonde, arrivavano progressivamente ad affiorare in superficie realizzando in quest’area il caratteristico fenomeno delle risorgive, vero e proprio spartiacque tra l’alta e la bassa pianura. Una tale abbondanza d’acqua era però anche causa di non pochi problemi di assetto idraulico. In quest’area, e poi più a valle, anche in virtù di una più modesta escursione delle quote altimetriche, ciò determinava fenomeni di stagnazione e di impaludamento piuttosto estesi. Nel XVI secolo la presenza di risorgive – variamente appellate con i nomi locali di fontane, fontanelle, fontanazzi, vene, sortumi – contraddistingueva diverse aree dei territori di San Martino, Monastiero, Sant’Andrea, Treville, Resana, Brusaporco, Albaredo e Casacorba.
La conformazione e la litologia di questo territorio spiegano così alcune delle peculiarità storiche del suo stesso sistema idrografico. Nella parte più settentrionale, esso appariva caratterizzato da un più marcato regime torrentizio, a differenza di quanto accadeva invece nell’area più meridionale.
A tutt’oggi, questo sistema può esser visto come una sorta di progressiva stratificazione di innumerevoli e diversificati interventi, succedutisi nel corso dei secoli, volti all’irrigazione, o al contrario allo sgrondo delle acque in eccesso, o ancora al funzionamento dei mulini, dei folli, degli opifici.
L’assetto idrografico
Il Muson
Un’indagine, pur sintetica, sui complessi equilibri idrografici di Castelfranco, che punti ad una ricostruzione del fragile ed indissolubile rapporto esistente tra insediamento urbano ed acque, incrocia, in prima battuta, il tema nodale della storia del Muson, il corso d’acqua con il quale, prima e dopo la fondazione del castello, l’insediamento abitativo, localizzato nei suoi pressi, deve sistematicamente fare i propri conti. È il Muson a fungere da efficace barriera naturale verso occidente (anche e soprattutto per la deleteria incostanza del suo regime idrico) e dunque a giocare un ruolo determinante per la costruzione, forse già in età protostorica, di un manufatto rilevato sul territorio circostante, che i Trevigiani riutilizzeranno, a fine secolo XII, per costruire il castello di Castelfranco. Il problema che gli edificatori della fortezza si dovettero porre prioritariamente fu l’alimentazione della doppia cerchia di fossati che avrebbero dovuto proteggere il fortilizio (il fossatum castri, circuente il castello e il fossatum cirche, delimitante all’esterno la cerchia delle bastie) (Fig. 2). Non è possibile conoscere con esattezza dalle fonti quale sia stata la modalità scelta per risolvere il problema. Certo è che si eseguirono impegnativi lavori per scavare i canali in cui far scorrere l’acqua dei due fossati del castello e delle cerchie, lavori che avevano avuto come conseguenza una deviazione del corso del Muson o forse più probabilmente del Musonello (soluzione questa più accettabile, considerata l’imprevedibilità e l’ingestibilità del Muson ed accertata la non rara intercambiabilità delle denominazioni tra i due corsi d’acqua, ripetutamente riscontrata nelle fonti archivistiche) . Certo è che il Muson, quale che fosse stato l’intervento, non cessava di esondare con frequenza, come rammentano gli Statuti duecenteschi del Comune di Treviso, danneggiando e devastando il fossatum castri. Attraverso quale condotto, poi, l’acqua del Muson entrasse nel fossato del castello lo precisano ancora una volta i citati Statuti, nei quali si stabilisce l’obbligo per il podestà di Treviso di eseguire la manutenzione del busnellum di alimentazione delle fosse, nel quale veniva immessa acqua proveniente direttamente dal Muson.
Quale sia stato, in epoca medioevale, il punto esatto di estrazione del busnellum dal Muson, quale il suo percorso da lì sino alle fosse del castrum, quale infine il tracciato del fossato delle cerchie, è problematico dire senza il supporto di documentazioni probanti, la cui assenza costringe ancora nelle nebbie l’assetto idrografico medioevale di Castelfranco.
Quel che, invece, appare accertato è la secolare e pesante dipendenza di Castelfranco dal Muson, sia per gli aspetti connessi alla difesa del castello, sia sotto il profilo dell’approvvigionamento idrico per usi potabili ed artigianali, cui si aggiunge il problema della difesa dalle intemperanze del torrente.
Nel 1494 una supplica, rivolta da Castelfranco alla Signoria, svela in pieno questo stato di cose, messo oltretutto in crisi da una congiuntura particolarmente negativa. Nel documento si afferma come la Comunità sia privata de uno precipuo et necessario emolumento de aqua per masenar lane, beverar animali et altre molte necessità occorente al victo et substentation humana, laqual aqua soleva za centenara de ani venir fora de paludi fontanari et boschi dil territorio de Asolo, chiamata el Muson, et descender nele fosse de Caste francho, fazendo masenar diverse poste de molini per benefitio universal de dicta comunità et districtuali […] et per esser sta reducti li terreni et loci de Asolo ad agricoltura, vien esser mancate dicte acque. La soluzione alla penuria idrica lamentata da Castelfranco è individuata nella possibilità di ottenere che dalle acque del Piave sia consentito di trazer un rametto che pervegna et discorra nele fosse de dicto Castello per masenar cum doi rode de molin, lavar lane […] aciò non siano constrecti abandonar dicti loci.
L’istanza della comunità conferma pienamente quanto indispensabile fosse per la vita di Castelfranco l’apporto idrico del Muson che, in realtà, diversamente da quanto può far supporre il testo citato, non entra con il proprio corso nella Terra, ma vi convoglia parte delle proprie acque attraverso il cordone ombelicale della roggia Musonello. Quest’ultima finisce per essere identificata
out court, nel caso citato come in altri cronologicamente successivi, con il torrente che la genera. Eppure è grazie a questo condotto artificiale, il cui esatto tracciato è, per la prima volta, rilevato cartograficamente solo nella seconda metà del XVI secolo, che le acque del Muson arrecano i benefici effetti di cui si lamenta la cessazione nel 1494: effetti che, al contrario, contraddicendo la pessimistica ed un po’ enfatica analisi prospettata a fine ‘400, si perpetueranno anche nei secoli successivi.
Tra le carte riproducenti il territorio della podesteria di Castelfranco o la Terraferma trevigiana o veneziana, ve ne sono alcune risalenti alla seconda metà del XVI secolo da cui risulta evidente come il problema costituito da rapporto tra il Muson e Castelfranco nei termini di una pericolosa contiguità del primo a danno della Terra, ma pure di un possibile e fecondo utilizzo dell’acqua del torrente per gli usi più disparati non escluso quello irriguo fosse già stato sostanzialmente risolto in epoche precedenti (quando, non è possibile affermarlo), pur nella permanenza di ricorrenti eventi alluvionali dovuti all’intemperanza dei regimi del corso d’acqua.
Carte più tarde, come quella Seicentesca che delinea la rete idrografica del territorio compreso tra il Brenta ed il Piave (Fig. 3), confermano il corso del torrente a nord di Castelfranco, ma disegnano anche i nuovi percorsi, frutto delle deviazioni fatte eseguire dalla Repubblica di Venezia tra il 1612 ed il 1613 per limitare l’afflusso delle acque del Muson direttamente nella laguna, del cui interramento erano ritenute pesante concausa.
La realizzazione delle complesse opere idrauliche connesse alla diversione del Muson e ad un suo profondo inalveamento aveva avuto inizio nel 1612 a sud di Castelfranco, tra Treville e Resana. Il corso d’acqua, il cui fondo doveva essere portato al di sotto della superficie di campagna di circa 10 metri e mezzo, viene condotto nella Vandura e, attraverso quella, nel Brenta, all’altezza del ponte di Vigodarzere. Si traccia in tal modo quello che ancora oggi si identifica come “Muson dei Sassi”, con percorso sostanzialmente rettilineo tra Castelfranco ed il Brenta, nel qual fiume si scaricano le acque che, precedentemente alla diversione, scorrevano invece tutte nell’antico corso del Muson “di Mirano” e di là si riversavano, prima direttamente e poi attraverso il “Taglio della Brenta”, in laguna.
La regolazione del Muson, se aveva, da un lato, risolto uno dei problemi più significativi nel più ampio disegno di riequilibrio dell’idrografia veneta, dall’altro non aveva inciso in modo alcuno sulle cause della dirompente variabilità dei suoi regimi idrici, individuabili nella natura torrentizia del suo corso a monte di Castelfranco e negli apporti irregolari forniti dai corsi d’acqua fuoriuscenti dai colli asolani. Apporti esplicitati ad esempio in una memoria, risalente al 1574, nella quale si riferisce che le acque del Musone […] descendono dalli Monti di Asolo di Trivisana nel tempo della neve, e piogge crescendo a facendo brentana. Delle brentane autunnali ed invernali del Muson si ritrova traccia nella documentazione archivistica. Spesso le brentane dilagano sul comparto nord-occidentale della Terra, nella contrada del “Musile”, come rammenta ad esempio nel 1621 Zuanne Zambuso, che lavora in affitto dei terreni proprio in quella località: il Musone è venuto tanto grande che montando su le rive, et quelle cimando no solamente l’inonda, ma cima gli arzeri […] inondando tutta la possessione, annegando esso cortivo, teze, et stale, et le proprie camare che si habita, et le paglie, che erano sotto li portichi. Non è azzardato ipotizzare che fosse stata proprio la zona del “Musile” a costituire il “varco” attraverso il quale il Muson entrava, ripetutamente, ancora in pieno secolo XVIII, nel fossato del castello. Delle dannose inondazioni delle fosse provocate alle acque del torrente in piena, rende conto Bernardino Zendrini, illustre matematico ed ingegnere idraulico, in una propria relazione del 1733 a seguito di un sopralluogo effettuato per identificare le ragioni del sovraccarico d’acqua del Dese, motivo di allagamenti della “Regia Strada del Terraglio”: il torrente dei Sassi […] rompe su la sua sinistra, come accade non rare volte, inonda sino nelle fosse del castello, caricandole all’eccesso d’acqua.
Finalmente, nella mappa di Cristoforo Pavelli del 1799 (Fig.4), il torrente, che per secoli tanti e seri problemi aveva arrecato all’equilibrio idraulico di Castelfranco, sembra scorrere tranquillo e ben inalveato, con il suo carico di ghiaie sul fondo, attraversando il borgo di Cittadella per perdersi poi verso sud. In realtà la situazione non doveva essere di molto mutata rispetto ai decenni ed ai secoli precedenti, se non per la città, almeno per i terreni e le strade limitrofe al torrente, considerato che, ancora nel 1826, la Deputazione comunale di Castelfranco, dando conto in uno specifico questionario dello stato dell’agricoltura nel territorio castellano, riteneva di dover segnalare che il Musone torrente gonfio ed impetuoso […] ristretto in un canale capace di 20 a 24 metri quadrati d’acqua straripa con frequenza e con abbondanza.
Il Musonello
Corso d’acqua artificiale, che nel XVI secolo si constata derivato dal Muson mediante una rosta posta sul torrente nella villa di Spineda (Fig. 5), il Musonello ha un ruolo da “protagonista” nella storia urbana di Castelfranco per tutto il periodo compreso tra il XV ed il XVIII secolo.
Se persistono notevoli difficoltà dovute all’indeterminatezza delle fonti coeve, non solo nella ricostruzione dell’antica idrografia medioevale di Castelfranco, ma anche nella datazione della conduzione di questo condotto idrico entro il perimetro della Terra, come pure nell’identificazione del suo esatto tracciato relativamente ai secoli XIII e XIV22, documentazioni più circostanziate che si posseggono per i secoli XV-XVIII (atti pubblici, estimi, disegni) consentono una ricognizione sui percorsi e sulle funzioni di questo corso d’acqua.
Una memoria del 1604 riferisce che l’acqua delle fossette scorre et principia dal molin delli Spinelli verso i tre ponti et molte miglia in su verso Godego, Loria et altre ville, et scorre à longo il mercato sotto li portichi verso il pavion, con la qual acqua se masena nel mollin delli clarissimi Moresini […] et poi scorre anco per mezzo la chiesa delli Reverendi Padri Capucini verso il Borgo di Treviso, et per sotto il ponte di esso Borgo, et perviene tal’acqua di esse fossette all’altro molin delli clarissimi Moresini posto in loco detto Chà Bianca appresso le Casette, et con detta acqua detti molini macinano, la qual poi corre et passa per sottoil ponte del Borgo della Pieve appresso la casa esistente del signor Santo Grigno […] et scorre all’ingiù per detto Borgo verso Resana.
Tale accurata descrizione del percorso del Musonello è leggibile anche in un disegno più tardo, del 1705 (Fig. 6), dal quale è desumibile in primo luogo come il Musonello abbia giocato un suo specifico ruolo, durante i secoli XV e XVI, nell’organizzazione urbanistica della piazza del mercato. Il fatto che la roggia corra, già nel XVI secolo, sotto i portici degli edifici che delimitano a nord questo spazio, autorizza l’ipotesi che il Musonello sia stato, almeno in quel tratto, il fossato esterno a quello del castello, racchiudente il comparto della Terra che, nell’estimo del 1542-1561 viene chiamato “Bastia Nova”. Il canale avrebbe quindi precostituito e dettato, con il proprio corso, intendersi originariamente e letteralmente lo spazio aperto posto tra il primo ed il secondo fossato circuenti il castello, spazio strutturato in forma di terrapieno con funzione difensiva. Solo in un momento successivo, per espansione concettuale, le cortine di edifici che si innalzano entro o ai margini di tali ambiti mutuano da questi ultimi la denominazione. Nell’estimo del 1542-1561 “Bastia Nova” indica il comparto edificato a nord nord-ovest lungo la piazza del mercato tra la loggia dei grani (“Paveion”) e porta Cittadella. Mentre la “Bastia Vecchia” indica il comparto edificato ad est, di fronte alla Torre Civica, tra il “Paveion” e l’inizio del Borgo della Pieve (Si veda Castelfranco Veneto. La città di Giorgione, a cura di D. Dal Pos, Castelfranco Veneto 1997, pp. 66-67).
L’allineamento degli edifici porticati, impedendo, forse per scelta del governo comunitario, che si potesse pregiudicare, con l’avanzamento verso sud delle costruzioni, la straordinaria funzionalità commerciale della spianata a settentrione del fossato del castello.
Uscita dalla piazza del mercato, la roggia delimita la Bastia Vecchia sul margine settentrionale, per poi piegare verso sud, avendo ricevuto le acque dell’Avenale in prossimità del convento dei Cappuccini. Sul tratto ad oriente il Musonello si identifica, per l’inera età moderna, con le “fossette”, rivelando con ciò una pregressa funzione, su questo versante, di fossatum cirche posto a protezione della Bastia Vecchia (detta Bastia è serata dall’acqua, che scorre nelle fossette, et da quella circondata).
Pervenuto all’estremità meridionale della Bastia, il Musonello si bipartisce nella contrada della “alle Casette”. Un disegno di Bernardino Zendrini redatto nel 1733 esplicita con chiarezza il complesso meccanismo di scarico della acque in questa zona (Fig. 7). Vi si vede un primo alveo entro il quale le acque vengono introdotte in caso di piena del Musonello (che raccoglie anche le acque di eventuali piene dell’Avenale, v. oltre), attraverso il “sostegno” B, per essere poi fatte defluire verso il Dese. Il secondo ramo della roggia prosegue per breve tratto verso ovest. Al punto C si divide in due: un primo condotto raggiunge le fosse, sottopassando il ponte di Ca’ Duodo, mentre un secondo devia verso sud, muovendo le ruote di un mulino. Oltre il mulino l’acqua si biforca ancora, scendendo sulla destra del Borgo della Pieve con il nome di Musonello vero e proprio, e sulla sinistra con quello di Musoncello.
Il Musonello propriamente detto costeggia tutto il Borgo per confluire, a sud di Resana, nel fiume Marzenego; il Musoncello piega, a valle del Borgo della Pieve, verso sud-est e, dopo aver attraversato la villa di San Marco, si riversa nel Dese a sud di Brusaporco. Musonello e Musoncello, che scorrevano a cielo aperto, verranno coperti solo tra l’estate del 1907 ed il giugno del 1909, al fine di eliminare rischi igienico-sanitari e di allargare la sede stradale, assai frequentata soprattutto nei giorni di mercato (Fig. 8 – 9).
L’Avenale
Una memoria della Deputazione comunale di Castelfranco riferisce nel 1826 che l’Avenale e la Cal di Riese scendono per proprio canale dal settentrione del Comune e tronfi d’acque raunaticie, spesso eziandio rinforzati dalle rotte del Musone unisconsi in un sol letto poco sopra i casali del paese. L’Avenale dunque scende a Castelfranco, provenendo dalla pianura posta ai piedi dei colli asolani, sino ad incrociare la via Postumia, avendo sulla propria sinistra un secondo corso d’acqua, denominato Cal di Riese per la contiguità con un’omonima strada di antico impianto romano (Fig. 10). La funzione del canale collettore di acque piovane, di brentane e di eccedenze idriche del Muson svolta dall’Avenale è confermata da un documento del 1781 che considera la quantità di acque dell’Avenale come accidentale e incerta secondo le pioggie provenienti da scoli. Il torrente, superata la via Postumia, scendeva lungo il Borgo d’Asolo. L’alveo correva al centro dell’odierna sede stradale, fiancheggiata a destra ed a sinistra da altrettante strade (Fig. 4). Giunto al punto di contatto tra il Borgo d’Asolo e la Bastia Nova l’Avenale sottopassava un ponte e piegava verso est percorrendo un breve tratto dopo il quale, con una curva ad angolo retto, si dirigeva verso sud e, all’altezza del convento dei Cappuccini, riversava le sue acque nel Musonello, proveniente dalla piazza del mercato.
Dei regimi idrici incostanti dell’Avenale sono testimonianza le brevi note che, il 13 dicembre 1806, la Municipalità di Castelfranco stende in un rapporto “intorno ai canali, scoli, torrenti, ecc. del suo Comune”: il torrente Avenale, comeché non scende direttamente dai monti, ma nasce nelle pianure di Spineda e di Riese dai scoli delle strade e delle campagne, corre meno veloce, sebbene tragga seco quantità considerevole di acque. Nel territorio del comune di Godego avvi una investitura privata di queste acque, la quale però non toglie che una quantità dannevole non ne giunga pure a Castelfranco, ove allaga nelle più gagliarde piene tre intere contrade, poiché sboccando quivi nel fiume Musoncello, non trova recipiente bastevole alla sua grossezza.
Nel 1702 si aveva comunque già ben chiara la natura del regime idrico del torrente allorché si procedeva definitivamente alla regolamentazione idraulica delle fosse, ponendo due porte per escludere dalle fosse le torbide [acque] dell’Avenale, dovendosi anche queste aprire in caso di massime piene, per evitare che tali acque, attraverso l’alveo del Musonello e del Musoncello finissero nel Dese, tramite il primo, e nel Marzenego tramite il secondo32.
Le disastrose piene del torrente che allagano il Borgo d’Asolo e la piazza del Mercato continuano per tutto il primo quarto del XIX secolo con cadenza quasi regolare, in primavera ed in autunno. Solo nel 1828 la Deputazione Comunale incarica l’ingegner Luigi Benini di approntare un progetto per la regolamentazione del corso d’acqua e la sistemazione della strada del Borgo d’Asolo.
L’iter burocratico dei lavori sarà lungo e solo tra la fine del 1832 e gli inizi del 1833 saranno espletate le pratiche relative agli appalti ed agli espropri per la deviazione verso est del corso d’acqua con conseguente interramento della porzione che attraverso il Borgo d’Asolo (Fig. 11). I lavori del grande cantiere, che riguarda un tratto di circa un chilometro e mezzo, si chiuderanno. solo alla fine del 1834. Senza comunque, a quanto pare risolvere definitivamente il problema se il 7 ottobre 1998 si è avuta forse la più disastrosa piena degli ultimi 150 anni, quando le acque dell’Avenale, dopo aver rotto gli argini, hanno allagato i quartieri a nord di Castelfranco e quindi l’acqua limacciosa, come nel primo Ottocento ha trasformato nuovamente la strada del Borgo d’Asolo in un torrente, irrompendo nella piazza del mercato e riversandosi infine nel fossato del Castello.
Le fosse del castello
Se si dovesse misurare, in qualche forma, sulla mole degli atti d’archivio prodotti la centralità che la cura riservata alle fosse assume nell’operato di generazioni di reggitori della Comunità di Castelfranco, tra gli inizi del XVI secolo e la fine del XVIII, si otterrebbe un risultato (fatto di perticazioni, perizie, deliberazioni, appalti, spese e conflitti) difficilmente paragonabile con la gestione complessiva degli altri beni comunali.
In epoca comunale, e lo si è visto nelle disposizioni degli Statuti di Treviso, la preoccupazione per l’equilibrio idraulico del fossatum castri era già forte ed appariva principalmente legata ad un obiettivo di tutela della funzionalità del castello, concepito essenzialmente come macchina militare. All’inizio del XVI secolo Castelfranco muta il proprio volto urbanistico all’esterno delle mura ed accentua le proprie potenzialità commerciali ed artigianali36. In questo frangente storico, le fosse denunciano l’obsolescenza, già constatata per la fortezza, d’una barriera fisica ormai priva della sua ragione d’essere originaria, per essere posta tra una cinta murata “aggredita” non più da truppe nemiche, ma dagli appetiti espansionistici dei privati ed uno spazio esterno in cui bastie e borghi si infittiscono di nuove case, palazzi e botteghe.
Le fosse, in questo contesto, finiscono per assumere un ruolo del tutto diverso da quello che avevano avuto in epoca medioevale e comunque fino alla guerra di Cambrai, ponendo ed accentuando una serie di problemi di manutenzione, in primo luogo l’escavazione, che incidono pesantemente nelle casse della Comunità e la cui soluzione appare come la condizione necessaria per qualificare positivamente il vivere ed il produrre nella Terra. Si affermano, per il circuito d’acqua intorno alle mura, nuove dimensioni funzionali, di rilevante importanza economica per i soggetti produttivi (nelle fosse si compensa tutto il sistema delle acque di Castelfranco, in primo luogo quelle del Musonello), ma anche urgenze di natura ambientale che incidono, con il ristagno, sulla salute di chi abita a ridosso del fossato. In tale ottica non è certo secondaria la necessità di procurare all’invaso che circonda il castello un apporto idrico regolare, nel quadro di un più vasto riequilibrio idraulico del sistema idrografico “urbano”. Si utilizza infatti il fossato come percorso di scarico, verso il Muson dei Sassi (dopo la deviazione del 1612) delle acque del Musonello-Avenale, attraverso il varco posto sull’angolo sud-occidentale (Fig. 6, lettera D); acque che, come si è visto dai rilievi effettuati all’inizio del ‘700 dallo Zendrini, finivano spesso per scaricarsi nel Dese e nel Marzenego e di lì in laguna. Infine, pare di dover rilevare una valenza che si potrebbe definire di natura “urbanistica”, meno esplicitamente documentata di altre, di cui le fosse sono caricate via via che, tra XVI e XVIII secolo, Castelfranco definisce la propria facies edilizia, in particolar modo sui lati orientale e settentrionale del castello. Ci si riferisce sia alla
dimensione “ornamentale” del fossato, da leggersi nel rapporto di stretta unità “ambientale” e topografica che lo lega all’antico simbolo della città, cioè il castello con le sue torri, come pure alla sua inclusione in un metaforico catalogo di connotati che permettono a Castelfranco, soprattutto nel XVIII secolo, di affermare per sé un’identità “urbana” (o forse, più propriamente, municipale), in linea con un percorso comune a molti altri piccoli centri della Terraferma veneta.
Un dato di carattere preliminare, necessario per comprendere la portata delle questioni sopra accennate, concerne le dimensioni delle fosse, nettamente diverse da quelle attuali. Nella prima mappa conosciuta delle fosse di Castelfranco, eseguita dal “pubblico pertegador” Paolo Migliorini il 28 gennaio 1612 (Fig. 12), si stima la lunghezza del fossato in 640 pertiche e la larghezza in 10 pertiche e mezzo (corrispondenti a circa 21 metri e mezzo, essendo la pertica trevigiana circa 2,04 metri). Si tratta dunque di una larghezza mediamente 4/5 volte maggiore dell’attuale. Sul lato orientale e su quello settentrionale il fossato è cinto da una cogolada (acciottolato) realizzata nel 158438, contenuta all’interno da una “controscarpa”, che permette ai mercanti ed alla popolazione, che su quei due lati affollano il mercato settimanale, di non affondare nel fango. La mappa del Migliorini serviva a misurare quante pertiche di fossato dovessero ancora essere scavate perchè, come recita una supplica inviata dalla Comunità alla Repubblica l’11 settembre 1611 l’escavazione delle fosse, per le quali va l’acqua del Musone, non solamente è di ornamento et bellezza, ma è utile et necesario in tutti i tempi per la conservatione di quella terra, poiché dalla loro atterratione si corrompe l’aere, si genera grandissima quantità di musolini, quali assediano quel Paese, tormentano giorno et notte li habitanti et rendono cattiva et pernitiosa l’habitatione et minacciano maggiore male et peggiori conequenze.
La difficoltà di garantire al fossato un regolare apporto idrico è un altro dei problemi da risolvere, la cui effettiva soluzione sarà trovata solo all’inizio del XVIII secolo. Dall’assenza di acqua corrente consegue che le fosse si riempiono d’erba, secondo quanto si verbalizza in una parte del Consiglio dei 24 del 1562, il che è cosa et danosa et pestifera. Ne consegue che l’erba deve essere tolta, insieme ad altre immonditie, affine che questo loco nostro sia conservato in aere bono et salutiffero. Nel primo Seicento le opere di ripulitura proseguono con sistematicità.
Inoltre la connessione tra putridumi del fossato, cattivi odori e malattie, ed il riconoscimento che il flusso di acque correnti può ovviare ad ogni inconveniente, è sostenuta anche nella memoria Ad aere patrium reparandum che il medico della Comunità Alessandro Languidis stende nel 1641 su incarico dei Provveditori di Castelfranco.
Dalla seconda metà del XVII secolo ai primi anni del successivo, le iniziative per eliminare le acque stagnanti dalle fosse non registrano grandi successi. Il prelevamento di acqua corrente non poteva che avvenire dal Musonello tramite un condotto apposito che attraversasse la piazza del mercato. Le opposizioni a questa soluzione sono nutrite: protestano per la prevedibile penuria d’acqua della roggia gli abitanti della piazza medesima, delle bastie, del Borgo di Treviso, nonché i proprietari dei mulini posti a valle del castello.
Per questi motivi, e per la cronica penuria di fondi a disposizione della Comunità, l’impresa verrà portata a compimento solo nel 1702-1703 con l’intervento di Domenico Guglielmini, publico professore di matematica nello Studio di Padova, il quale stende un progetto di intervento corredato da un disegno (perduto) in cui si prevede la costruzione di manufatti che regolino definitivamente l’afflusso ed il deflusso dell’acqua del fossato mediante un nuovo acquedotto o alveo sotterraneo à traverso la strada del mercato, il quale porterà al fossato l’acqua viva […] come pure la torbida nelle escrescenze del Musoncello.
Alla radicale escavazione del 1702-1703 seguono analoghe operazioni, ma di portata minore, nel 1751 e nel 1783. Nel frattempo era mutato il volto stesso del fossato, rispetto alle dimensioni che aveva ad inizio ‘600: assediato dai privati, esso era stato interrato in più punti e per settori molto ampi. Lo stadio finale di questo processo, maturatosi tra la fine del XVI secolo e gli ultimi anni del XVIII è evidente in una carta disegnata dal perito pubblico Cristoforo Pavelli il 20 luglio 1802 (Fig.13). Il fossato ha più o meno un alveo paragonabile a quello che conserva ancora oggi. Con la lettera E il Pavelli indica i settori del fossato usurpati ed interrati dai proprietari delle rive. Quel che rimane dell’alveo è indicato dalla lettera F. È sufficiente uno sguardo alla fascia
ontrassegnata dalla lettera E per capire quanto fossero digradate verso l’acqua le pendici del terrapieno, riducendo la superficie delle fosse di un buon terzo, almeno sui lati meridionale ed occidentale, acuendo in tal modo vecchi problemi di regolamentazione del circuito idrico e le relative conseguenze igienico-sanitarie, come aveva avuto modo di rilevare il dottor Francesco Trevisan in una sua memoria del 15 aprile 179650. Il pomerio, ossia quello spalto di terra che dalle mura esteriori in piano inclinato giungeva sino all’acqua delle fosse, scrive la Municipalità nel 1797, lamentando le usurpazioni delle rive e l’interramento del corso d’acqua artificiale, è stato poco per volta spianato, fando cader la terra nel vano della fossa, […] inbonendola in modo, che presentemente non offre, che l’aspetto di un paludoso fossato51.
Il fossato vive, dunque, a fine ‘700, il momento più critico della sua storia, essendo preso in mezzo tra gli interessi dei frontisti, da un lato, che lo ritengono solo un impedimento all’espansione dei loro broli sulle rive, e la determinata volontà della Municipalità, dall’altro, di tutelare la residua integrità del patrimonio pubblico cittadino da illegittime appropriazioni dei privati. Il suo ruolo di componente del paesaggio “urbano” di Castelfranco e la sua stessa identità di regolatore idraulico delle acque cittadine vengono messi in discussione, al punto che il capitano ingegnere dell’Armée di Napoleone, Charles d’Oettel, per ovviare all’ammorbamento dell’aria che le acque stagnanti procurano, propone di fatto il suo interramento e la sua cancellazione, in un progetto del 1798 che,
oltre a ciò, prevede l’abbattimento delle mura e delle torri, ad eccezione di quella dell’orologio. Nulla di tutto quanto prospettato dal d’Oettel venne attuato, cosicché le fosse si sottrassero ad una sorte che le avrebbe viste scomparire insieme al castello, per essere anzi, qualche decennio più tardi (1865), definitivamente inglobate nell’apparato scenografico che si andava costruendo sui lati settentrionale e, soprattutto, orientale del castello, divenendo in tal modo componente definitiva ed ineliminabile del paesaggio della città (Fig.14).
Per concludere
Vent’anni fa, nel 1992, l’Unione Europea approvava il Quinto Piano d’Azione Ambientale nel quale si auspicava un cambiamento dei modelli di comportamento della società, promuovendo la partecipazione di tutti i settori e rafforzando lo spirito di corresponsabilità che si estendeva all’amministrazione pubblica, alle imprese e alla collettività.
Si prendeva definitivamente coscienza di come la tutela dell’ambiente dovesse venir integrata nella definizione e nell’attuazione delle differenti politiche comunitarie, non solo per il bene dell’ambiente ma anche per il bene e il progresso di tutti i settori.
Ma per realizzare ciò si deve definitivamente superare la visione individualistica della soluzione dei problemi, per orientarsi, nei comportamenti e nelle politiche territoriali, verso le logiche proposte da una visione di queste entità come riunite in una regione sistemica.
Ciò non significa smentire l’articolazione in ambiti territoriali diversificati dalla varietà quali-quantitativa delle componenti che caratterizzano i territori, quanto piuttosto programmare una realtà geografica che dipenda dalle caratteristiche intrinseche dei luoghi e che favorisca la nascita
di un vero rapporto interattivo e sinergico con le altre parti della realtà geografica.
Certamente la via da seguire è quella della continuità con le linee di sviluppo: ciò non significa però museificare la tradizione, quanto piuttosto sviluppare un’integrazione sempre maggiore tra le attività e i comparti produttivi presenti con una necessaria attenzione all’esterno, favorendo l’integrazione produttiva.
Convinti che un vero sviluppo sostenibile possa essere, a ragione, considerato tale quando il tasso di rigenerazione delle risorse sfruttate dall’attività economica sia più alto del tasso di sfruttamento delle risorse della stessa attività, solo se Castelfranco saprà proporsi come centro nel quale le attività economiche investono, a tasso crescente, nella rigenerazione della risorse (in particolare dell’acqua) che essa sfrutta, potrà definirsi sostenibile e utile sia per chi abita queste terre oggi, ma anche, e soprattutto, per le generazioni future.
Lo sviluppo sostenibile, lungi dall’essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e le modifiche istituzionali sono resi coerenti con i bisogni futuri dell’umanità, oltre che con quelli attuali. La ricerca della sostenibilità richiede di prendere sempre più in considerazione, assieme a variabili non strettamente economiche (quali la salute), la salvaguardia delle risorse, prima tra tutte l’acqua.
Già in altre pagine è stato ricordato come ogni realtà regionale, in virtù delle sue caratteristiche complessive, deve essere interpretata come un sistema territoriale dinamico, soggetto cioè a molteplici processi, evolutivi o involutivi, che traggono la loro origine in cause sia endogene che esogene, sia di tipo umano che economico-politico. L’oggi di un territorio non è frutto solamente delle sue prerogative intrinseche ma anche, e in molti casi, purtroppo, soprattutto, delle situazioni prodotte dalle realtà limitrofe. E se quanto ora affermato vale come criterio generale, ancor più sembra essere vero per Castelfranco Veneto come dimostra la storia delle acque che circondano questo abitato.
Abbreviazioni
ACCV: Archivio Comunale di Castelfranco Veneto
ASVE: Archivio di Stato di Venezia
BCCV: Biblioteca Comunale di Castelfranco Veneto
Maria Laura Pappalardo
Presidente Festival Terra2050, è professore associato presso l’Università degli Studi di Verona nella Facoltà di Lettere e Filosofia -Dipartimento Tempo, Spazio, Immagine, Società-. L’attività scientifica, orientata su varie tematiche (dalla geografia del turismo alla geografia regionale, medica, del sottosviluppo, culturale, dell’ambiente e del paesaggio, …) si è articolata nello svolgimento di ricerche, nella stesura di una serie di lavori, nella partecipazione attiva a vari convegni e congressi, nonché nella pubblicazione di articoli e lavori a stampa di varia entità editi in riviste e pubblicazioni di settore. Da vari anni collabora con la Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi (CIPRA). Ha lavorato per la casa editrice Atlas di Bergamo per la quale ha pubblicato alcuni testi per la scuola secondaria di primo grado. E’ socia dell’Associazione dei Geografi Italiani, della Società Geografica Italiana, della Società di Studi Geografici, dell’Associazione Insegnanti di Geografia. Ha fatto parte dei gruppi di ricerca nazionali, ed attualmente è inserita in Gruppi di Ricerca A.Ge.I.
Paolo Sartori
si laurea in Storia presso l’Università di Venezia con una tesi dal titolo “La scrittura di Giorgione” e consegue poi un Dottorato di Ricerca presso l’Università di Verona con un lavoro sulla trasformazione della scrittura romanica e l’origine della scrittura gotica ed un confronto tra epigrafia e paleografia nell’ambito dell’Italia Settentrionale.
Nel frattempo partecipa come archeologo e medievista a diverse campagne di scavo, in particolar modo è borsista nel 2003 e nel 2005 presso la Escuela Española de Historia y Arqueologìa a Roma, lavorando nel sito della città di Tusculum.
Svolge attività di ricerca presso l’Università di Verona in campo epigrafico e paleografico ed è stato membro del Comitato Scientifico per lo studio delle reliquie dei santi Fermo e Rustico conservate nella Basilica di san Fermo a Verona, nonché responsabile del censimento delle iscrizioni medioevali di Verona e provincia.
Nel 2008 è Arthur Gordon Fellow presso la Ohio State University, dove si occupa di ricerche nel campo dell’epigrafia classica e svolge seminari di paleografia ed epigrafia. L’anno successivo è docente di Storia Romana presso la Saint John International University di Torino.
Ha pubblicato diversi studi sia nel campo dell’epigrafia classica che di quella medioevale.