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Verso il “Terzo Paradiso”? Letture Geografiche di Prodotti Artistici

Pubblichiamo ora un articolo della Professoressa Maria Laura Pappalardo, presidente del Festival Terra2050, con cui ha vinto, nella sezione originalità, il secondo premio Pan Ardito Desio durante i lavori della XXIII Conferenza Scientifica Internazionale “Incompletezza ed erranza nel mosaico paesistico-culturale. Tempi, luoghi, azione” che si è tenuta a Napoli il 4-5 luglio scorsi.

Premio Pan Ardito Desio conferito alla Professoressa Maria Laura Pappalardo

Per sensibilizzare le coscienze collettive e richiamare l’attenzione su una maggior salvaguardia dell’ecosistema, alcuni artisti e fotografi, hanno ritenuto “obbligatorio” mettersi al servizio dell’ambiente realizzando progetti che testimoniassero i danni creati dall’uomo, sollecitando la necessità di un urgente “cambiamento di rotta”. È necessario e utile rendere consapevoli le generazioni attuali e quelle future, che la produzione di ricchezza non deve avvenire a danno del sistema Terra, che supporta la varietà della vita, e che non è sufficiente limitarsi a contenere o a rimuovere il flusso degli inquinamenti. L’uomo ha il compito e il dovere di evitare che l’ecosistema subisca delle trasformazioni strutturali ed irreversibili per effetto dell’azione umana.

Nelle pagine che seguono viene compiuta una lettura geografica di alcuni progetti di fotografi e di artisti contemporanei per sensibilizzare sulla drammatica situazione che sta attraversando il nostro pianeta. Tutti gli artisti analizzati sono soliti esporre le proprie opere nei centri delle città più importanti del mondo, siano esse piazze reali, attraverso installazioni temporanee, o “piazze virtuali”, attraverso la pubblicazione delle immagini su blog e social network.

In particolare si analizzeranno i recenti contributi di Fabrice Monteiro, Maria Cristina Finucci, Michelangelo Pistoletto testimonials emblematici dei problemi delle condizioni attuali del pianeta e del dilagare dei rifiuti plastici. Monteiro, ad esempio, manifesta il degrado in cui riversa l’acqua dei nostri oceani, fotografando plastica, oggetti abbandonati sulle rive delle spiagge e rifiuti di ogni genere. Finucci è famosa in tutto il mondo per aver fondato, nel 2013, il Garbage Patch State, uno Stato riconosciuto dall’UNESCO con un’estensione di oltre 16 milioni di chilometri quadrati, identificato con le cinque isole di plastica presenti negli oceani. Pistoletto, infine, principale esponente dell’Arte Povera, a partire dal 2003 ha dato origine al progetto artistico il “Terzo Paradiso” la cui lettura in chiave geografica permette di coniugare l’oggi del nostro pianeta con il futuro che ci aspetta.

Geografia: “scienza del vissuto territoriale”

La definizione dell’oggetto della geografia come: “scienza del vissuto territoriale” impegnò i geografi solo a partire dagli Anni Sessanta del Novecento con la nascita dell’approccio umanistico. Nel decennio successivo, sulla scia dei movimenti ambientalisti, nacquero le prime ricerche sulla “percezione” dell’inquinamento e dei disastri ambientali, ampliando gli interessi verso questioni più complesse. Si realizzò così il recupero degli spazi di ambiguità, di polisemia, di interpretazione degli eventi che permisero l’apprezzamento dei valori e delle norme; il ritorno alla dimensione soggettiva aprì alla possibilità di reintrodurre nelle ricerche le emozioni e tutto il complesso di significati che restavano spesso nascosti sotto le fisionomie visibili dei paesaggi. In tal modo divenne fattibile cogliere tutte le sfumature di senso che rendono unico un luogo poiché si riabilitarono le capacità di trasformazione dei luoghi stessi impresse dagli attori umani. Empatia e contemplazione lenta e “partecipata” dei paesaggi divengono così le chiavi di lettura indispensabili per capire e vivere i luoghi. Ed il passato non interessa solo per proseguire secondo le tradizionali linee di ricerca geografica; esso serve soprattutto per ridare vita a potenziali narrazioni sopite nella memoria o depositate tra le pieghe, quasi invisibili, del patrimonio di rappresentazioni che ci viene tramandato da poeti, scrittori, musicisti, pittori, registi e, nel nostro caso, artisti e fotografi.

Una geografia che scaturisce da un rapporto che si può definire empaico ed estetico con le cose, che si alimenta di sentimenti e di emozioni, che tende ad esplorare tutto ciò che ancora è ignoto ed anche meraviglioso. Citando Dardel, ci si riferisce ad una geografia che: “Senza trascurare il concreto presta i suoi simboli ai movimenti interiori dell’essere umano e che così facendo ci da una prima visione della Terra a cui poi il sapere darà una sistemazione” (Dardel, 1952, p. 228).

Ed oggi più che mai è valido quanto ora affermato, in un tempo nel quale non solo non è più necessario conoscere il mondo per conquistarlo ma dobbiamo sentirlo nostro per prendercene cura, ed è sempre più importante essere consapevoli che in ogni nostro “locale” c’è una parte di regionale, di nazionale, di globale che ne connota i caratteri e l’evoluzione e, reciprocamente, ogni livello superiore, anche quello planetario, è costituito da ciò che gli deriva dai tanti “locali” con cui è in relazione.

I paesaggi, oggetti privilegiati dell’indagine geografica, sono non solo un modo molto evidente attraverso cui si manifesta la diversità culturale, ma anche il “teatro” nel quale si rispecchia l’identità oggettiva della società che in quel paesaggio vive e di quel paesaggio vive. Studiare i paesaggi significa studiare i modi attraverso i quali si possono stabilire delle regole per una trasformazione sostenibile del mondo nel quale viviamo.

Quotidianamente veniamo messi a conoscenza degli effetti della mancanza di sostenibilità sul nostro pianeta, sia che ci si riferisca al pericoloso aggravarsi del cambiamento climatico con i connessi fenomeni di desertificazione, scioglimento dei ghiacci, innalzamento del livello degli oceani, rischi per la salute, sia che si pensi alla perdita della biodiversità, all’inquinamento o all’alterazione degli ecosistemi, per non citare la deforestazione, … Più raramente, di contro, pensiamo alle cause che producono tali situazioni, cause che risalgono allo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, all’emissione di molteplici sostanze inquinanti e di gas serra in atmosfera, all’uso continuo e smisurato di fonti non rinnovabili, … Tale ambiguità risiede nel fatto che nonostante il paradigma della sostenibilità sia ormai definito da oltre trent’anni, ovvero dal rapporto Brundtland “Our Common Future” del 1987, il dibattito attorno ad esso sia ancora carico di lati oscuri; sembra mancare, soprattutto, una efficace discussione su quali debbano essere le priorità da perseguire per promuovere lo sviluppo sostenibile, quali politiche ed azioni debbano essere considerate sostenibili e attraverso quali parametri si possa misurare la sostenibilità. Tale indeterminatezza comporta che il termine “sostenibilità” venga utilizzato dai più come jolly propagandistico senza un’adeguata riflessione sui contenuti e gli obiettivi, portando a svuotare di significato il concetto stesso di sostenibilità.

Come geografi vediamo la sostenibilità in termini problematici in virtù delle differenti scale di indagine: consapevoli che non è corretto ragionare unicamente a scala locale o globale, ma al contrario occorre prendere coscienza che le problematiche, le relazioni tra gli attori e le possibilità di azione variano a scale differenti, un approccio costruttivo mira a mettere in evidenza quali siano i termini, gli attori e le conseguenze dei vari problemi analizzati, le scelte politiche che ne derivano, le antinomie tra la sfera economica, umana e ambientale, rivelando quei grovigli critici senza la cui risoluzione non è possibile alcuna sostenibilità.

È stato scritto: “La vita è diffusa? O la Terra è speciale, non soltanto per noi che ci abitiamo, ma per il cosmo nel senso più ampio? Fintanto che conosciamo soltanto una biosfera, la nostra, non possiamo escludere che sia unica: la vita complessa potrebbe essere il risultato di una catena di eventi così improbabile da aver avuto luogo un’unica volta in tutto l’universo osservabile, sul pianeta che è diventato il nostro. D’altro canto, la vita potrebbe essere molto diffusa ed essere sviluppata su ogni pianeta simile alla Terra (e forse in molti altri ambienti cosmici). Sappiamo ancora troppo poco di come la vita sia iniziata e si evolve per decidere tra queste due possibilità estreme…” (Rees, 2004, p. 124).  

Non si tratta quindi solamente di rispondere alla domanda su quanto petrolio sia rimasto da sfruttare o se saremo in grado di arrestare il riscaldamento globale, se vincerà il bello artistico o se anche il brutto avrà la sua rivincita! Quando si considera un problema così vasto è facile sentirsi confusi, incapaci di effettuare qualsiasi cambiamento. Ma si deve evitare di reagire in questo modo, tutte le crisi e quindi anche quella che sta vivendo il nostro pianeta e della quale i segni sul paesaggio ne sono testimonianza, va risolta solo se gli individui se ne assumono la responsabilità. Solo educando noi stessi e gli altri, facendo la nostra parte per ridurre il degrado e l’inquinamento, valorizzando l’utile, geograficamente inteso, si può fare la differenza.

La geografia, con il suo metodo di analisi della realtà, ci può aiutare a guarire da quella parziale cecità nel modo di considerare l’effetto delle nostre decisioni sul mondo naturale che rappresenta un grande ostacolo agli sforzi che vengono compiuti di formulare risposte sensate alle minacce cui l’ambiente si trova attualmente di fronte. Studiare il paesaggio e leggere gli oggetti in esso presenti non in chiave di mero bello e utile economicamente inteso, bensì come il teatro dell’agire umano, sono condizione vitale per trovare il giusto equilibrio nel rapporto tra l’uomo e il proprio ambiente di vita, per invertire quella tendenza ormai diffusa che ci vede decisi solo ad essere indecisi, risoluti solo ad essere irresoluti, immobili nei movimenti, saldi nell’instabilità, onnipotenti nella determinazione di essere impotenti

Appassionata studiosa di geografia, da anni dedita alla salvaguardia dell’ambiente e alle soluzioni delle problematiche di mancato sviluppo delle popolazioni più povere che abitano il pianeta, non posso, in queste pagine, non citare Joe Miller quando ricorda che: “Se la Terra avesse un diametro di pochi metri, se potesse galleggiare su un piccolo campo, la gente arriverebbe da ogni luogo per vederla: le girerebbe attorno, ammirerebbe i suoi grandi e piccoli stagni, e l’acqua che vi scorre in mezzo. Ammirerebbe i suoi rilievi e le sue cavità. Ammirerebbe lo strato sottile di gas che la circonda e l’acqua sospesa nel gas. Ammirerebbe gli esseri viventi che camminano sulla sua superficie e quelli che dimorano nelle sue acque …. La dichiarerebbe sacra perché sarebbe unica e la proteggerebbe perché non venisse ferita. La Terra sarebbe la più grande delle meraviglie conosciute e la gente verrebbe per pregare davanti a lei, per essere guarita, per avere il dono della conoscenza, per capire la bellezza, e per chiedersi com’è possibile realizzarla. La gente l’amerebbe e la difenderebbe con la propria vita, perché saprebbe che la propria vita non sarebbe niente senza di essa.” E non è forse quello che è successo ad esempio sul lago d’Iseo nella primavera del 2016 grazie all’opera di Christo? Ironizzare sull’arte contemporanea è facile, più impegnativo è invece guardare davvero il lavoro di Artisti che non usano più concetti come quadro o scultura e creano qualcosa d’altro, cercando di restare radicalmente legati al presente. Qualcosa che è, infatti, successo con il lavoro di Christo, ma anche con Artisti come Fabrice Monteiro, Shawn Heinrichs, Olafur Eliasson, Maria Cristina Finucci, Michelangelo Pistoletto e, prima di loro, in campo fotografico, Ansel Adams.

Fabrice Monteiro e il ruolo della fotografia

Quando pensiamo alla fotografia di un paesaggio certamente ci immaginiamo un tripudio di colori: spiagge dorate, campi verdeggianti, oceani cristallini, distese di fiori; assai raramente riusciamo a creare un sillogismo legato all’uso del bianco e nero. Eppure Ansel Adams (1902-1984) è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi fotografi paesaggisti di tutti i tempi nonostante abbia quasi esclusivamente scattato in bianco e nero, anche quando i mezzi a disposizione gli avrebbero consentito di utilizzare il colore. Fondamento della sua arte era uno smisurato amore e rispetto per la natura della quale cercava di cogliere l’essenza emotiva. “Il mondo intero è per me molto vivo … tutte le piccole cose che crescono, perfino le rocce. Non riesco a guardare crescere un po’ d’erba e di terra, per esempio, senza percepire la vita essenziale, le cose che si muovono con loro. Lo stesso vale per una montagna, o un tratto di mare, o un magnifico pezzo di legno vecchio” scriveva Adams e questa emotività, esaltata proprio dal bianco e nero e dal contrasto tra chiari e scuri, traspare da ogni sua immagine donando alle sue fotografie un’intensità unica. D’altra parte per l’Artista la foto non era semplice visualizzazione della realtà bensì la trasposizione di ciò che il fotografo sentiva, frutto del suo vissuto esistenziale e delle sue esperienze. Affermava infatti: “Tu non fai una fotografia solo con la macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai ascoltato e le persone che hai amato” (Adams, 1948, p. 52).

Impegnato attivamente come ambientalista, Adams ha mostrato non tanto le cause del crescente degrado ambientale, quanto la meraviglia della natura incontaminata, come si può osservare nella fotografia del 1942 scattata nel Parco nazionale del Grand Teton nella quale il fiume, vero protagonista dell’immagine inteso come simbolo dell’America selvaggia, viene illuminato dai raggi del sole che filtrano dalle nuvole per riflettersi nelle sue acque.

Seguendo l’esempio di Adams, altri fotografi comprendendo l’elevato potenziale offerto dalla fotografia ambientale come rappresentazione artistica per sensibilizzare e documentare i danni recati dall’uomo all’ambiente, hanno impresso sulla pellicola le catastrofi provocate dall’uomo e hanno posto lo spettatore al cospetto del danno reale, senza nessun filtro, per favorire una coscienza ecologica per la salvaguardia dell’ambiente.

Prima di passare a parlare di un altro fotografo prendiamo come base di partenza per le nostre riflessioni una cifra: 40 milioni. Non dollari non euro: ogni anno il mondo produce 40 milioni (e più) di tonnellate di rifiuti elettrici ed elettronici (fenomeno conosciuto come electronic waste). Una vastissima montagna di frigoriferi, lavatrici, computer, televisori, telefoni, cellulari, monitor, computer, circuiti stampati, stampanti, condizionatori d’aria, lampade, forni, tostapane e altri dispositivi elettrici ed elettronici viene creata con prodotti danneggiati, obsoleti, non più alla moda. Come ricorda Internazionale: “I maggiori produttori pro-capite sono gli Stati Uniti e l’Unione europea. I paesi emergenti, come la Cina, ne producono sempre di più. Dei rifiuti prodotti, solo una piccola parte – circa il 15,5% nel 2014 – viene riciclata con metodi efficienti e sicuri per l’ambiente”.


Figura 1. The Tetons and the Snake River (1942).
https://it.wikipedia.org/wiki/Ansel_Adams

Resta da chiedersi dove vengano riciclati e dove cresca ogni anno questa montagna del peso di ben sette piramidi di Cheope. L’Africa, in generale, ed il Ghana, in particolare, sono importanti centri di ricezione, riutilizzo, recupero e smaltimento di rifiuti elettronici. Ad Accra troviamo un grande mercato dell’usato, diversi negozi per la riparazione e alcune iniziative per valorizzare il potenziale dell’e-waste. Girando per i diversi quartieri si incontrano file di televisori, computer, stampanti, ferri da stiro e telefoni di modelli comuni in Europa in un passato assai recente. Alcuni negozi espongono stampanti da ufficio appena scartate, mentre qua e là gruppetti di uomini siedono attorno a un tavolino e riparano smartphone e televisori. Purtroppo nella capitale vi è anche una gigantesca ed inquinatissima discarica di rifiuti elettronici che causa gravi problemi ambientali e sanitari, nel quartiere di Agbogbloshie. Qui uomini e bambini estraggono – con metodi nocivi per l’ambiente e la salute – rame, alluminio e altri materiali destinati a tornare nelle industrie e alle raffinerie dei Paesi sviluppati.

In Cina, d’altra parte, sorge Guiyu nella provincia di Guangdong a nord-est di Hong Kong, un’area che comprende una miriade di piccoli villaggi che si sono specializzati, a partire dal 1995, nello smaltimento di apparecchiature elettroniche che arrivano da tutto il mondo: è questo il sito più grande al mondo di rifiuti tecnologici, il cosiddetto “cimitero elettronico”. Oltre 100 000 persone lavorano al recupero dei componenti: in un quartiere si rintraccia la plastica, in un altro i circuiti stampati sono fusi per estrarre le piccole quantità di oro e di altri metalli preziosi presenti, … Purtroppo molti di questi lavori sono svolti manualmente, senza indossare alcun indumento di protezione adeguato, né mascherine, aprendo, ad esempio, le cartucce delle stampanti a mani nude con il cacciavite e svuotando i toner in un secchio. Durante questa operazione si diffonde nell’aria una vera e propria nuvola di toner che è inalata dai lavoratori.

Secondo una recente ricerca compiuta da diverse organizzazioni ambientaliste il 50-80% del materiale elettronico di scarto raccolto negli Stati Uniti viene caricato su apposite navi e spedito in Cina, India, Pakistan, dove viene in parte riutilizzato e, la maggior parte, riciclato senza severi controlli, con esiti sovente tossici. Tra le vie di Agbogbloshie e di Guiyu molte persone trovano nell’e- waste la fonte del loro sostentamento smantellando, recuperando, pesando, trasportando e rivendendo pezzi e metalli ricavati dai rottami. Sono aree molto povere e inquinate dove quello che una volta era un paesaggio verde e fertile è oggi un cimitero di plastiche ed elettrodomestici dismessi dove gli e-waste boys,bruciando quintali di cavi elettrici per estrarre il rame e poi rivenderlo per pochi centesimi cedis al chilo, producono fumi tossici che avvelenano l’aria e vanno a posarsi sul suolo e sugli ortaggi in vendita al mercato. Quantità preoccupanti di piombo, alluminio e rame sono stati rilevate nel sangue, nelle urine e nel latte materno degli abitanti del luogo.

Da quanto sino ad ora esposto comprendiamo meglio il valore del progetto di Fabrice Monteiro.

Anche per Monteiro la fotografia è uno strumento per porre l’attenzione sulle questioni ecologiche, sociali, religiose, politiche e di identità, facendo leva sul senso di responsabilità delle persone. Tornato in Senegal nel 2011, dopo aver vissuto per vent’anni in Europa, Monteiro rimane scioccato dal degrado ambientale che dilaga nel Paese. Decide così di dare vita al progetto “The Prophecy” una serie di nove fotografie attraverso le quali raffigura allegoricamente i problemi ambientali che la nostra società usa e getta si rifiuta categoricamente di considerare, dal riscaldamento globale al cambiamento climatico. L’Artista decide di far conciliare la sua esperienza di fotografo di moda con l’attività di fotoreporter e ritrae creature spettrali (che traggono origine dai Djiins, figure soprannaturali che per i senegalesi dimorano in un limbo, tra l’umano e lo spirituale, che permettono al fotografo di creare quell’atmosfera mistica in cui trascinare e sedurre l’osservatore) vestite di rifiuti che emergono da paesaggi in rovina.

Nell’immagine sottoriportata una figura soprannaturale è circondata da   montagne di rifiuti di ogni genere, soprattutto elettronici, a documentare il degrado e la miseria dilagante in Senegal e in gran parte dei Paesi africani.


Figura 2.  Fabrice Monteiro, The Prophecy, 2015.
https://fabricemonteiro.viewbook.com/

In un’intervista il Fotografo ha affermato: “La mia idea iniziale era quella di creare una sorta di racconto per bambini che potesse essere distribuito nelle scuole africane, basato su credenze tradizionali, in particolare sull’animismo. Ogni spirito immortalato nelle mie immagini prende in esame una specifica questione ambientale: i rifiuti creati dalla plastica, il riscaldamento globale, l’inquinamento … Ho scattato nove profezie in Senegal, ma voglio realizzare queste immagini in tutto il mondo. L’Africa è solo il punto di partenza per un problema che colpisce l’intero pianeta” (Monteiro, 2018).

Tutte le creature, protagoniste delle sue fotografie, indossano abiti realizzati (grazie alla collaborazione con lo stilista senegalese Doulsy, meglio noto come Jah Gal) con materiali di scarto e rifiuti trovati sul posto. Monteiro e Jan Gan, insieme, riescono a trasformare semplici rifiuti in abiti ricchi di dettagli che possono essere, a prima vista, confusi con una collezione di haute couture.

Nella foto 3, ad esempio, una creatura spaventosa emerge dalle acque ricoperta da quelle reti da pesca che Monteiro e Doulsy hanno trovato sulla costa e si trascina, a fatica, verso la spiaggia; in questo caso si denuncia, l’abbandono delle reti da pesca sulle spiagge che poi, con le maree, vengono trasportate in mare aperto, mettendo a repentaglio la vita di varie specie marine che rischiano di rimanere impigliate nelle loro trame. Nell’immagine si può notare la tensione creata dal volto dello spirito, rivolto verso sinistra con i “capelli” mossi dal vento a rappresentare il futuro e dall’altra il suo braccio destro che, incastrato in una rete bianca e trattenuto dalle onde, gli impedisce di avanzare.


Figura 3.  Fabrice Monteiro, The Prophecy, 2015.
https://fabricemonteiro.viewbook.com/

Nel rilasciare un’intervista Monteiro ha dichiarato che: “Quando si parla di questioni ambientali, si ottengono numeri allarmanti e statistiche o immagini di paesaggi devastati. Ma con progetti come The Prophecy, puoi parlare al cuore delle persone mescolando fatti e arte. Dare a questo problema un elemento mistico aiuta a sensibilizzare e spinge le persone a cambiare. Ogni spirito rappresenta uno specifico problema ambientale che è al tempo stesso globale e locale: la plastica che finisce nelle discariche, l’inquinamento marino, lo sversamento di petrolio in mare, il problema dei rifiuti elettronici, le alluvioni, le reti da pesca abbandonate che danneggiano la vita marina, l’inquinamento dell’aria provocato dagli scarichi delle automobili, l’estrazione di carbone per produrre energia, la deforestazione, l’erosione del suolo e delle coste”.

Nel progettare The Prophecy Monteiro ha immaginato il giorno in cui Madre Natura si sarebbe svegliata malata, e avrebbe raccolto tutti i suoi spiriti attorno a sé dicendo: “Ho impiegato milioni di anni per creare un ambiente ospitale per i miei figli, e loro ci hanno messo meno di 200 anni per distruggerlo completamente”.

A riguardo dello sversamento del petrolio in mare, mentre ammiriamo l’immagine (Fig. 4) di Monteiro pensiamo anche a quanto annotò lo scrittore statunitense Vonnegut: “Care generazioni future: vi prego di accettare le nostre scuse. Eravamo ubriachi fradici di petrolio”. Quanto ora affermato è tanto più vero se si nomina una petroliera ormai tristemente famosa: la Exxon Valdez.


Figura 4.  Fabrice Monteiro, The Prophecy, 2015.
https://fabricemonteiro.viewbook.com/

Il 24 marzo 1989 la nave si arenò sul Prince William Sound’s Bligh Reef. Secondo i dati ufficiali, la petroliera al momento dell’impatto stava trasportando circa 210 000 m3 di petrolio, dei quali almeno 42 000 si riversarono nelle acque, causando uno dei più grandi disastri ambientali di tutti i tempi sulla costa asiatica vicino all’Alaska.


Figura 5.  Fabrice Monteiro, The Prophecy, 2015.
https://fabricemonteiro.viewbook.com/

La National Oceanic and Atmospheric Administration ha stimato che attualmente oltre 26 000 litri di olio sono ancora sul fondale oceanico. Oltre 100000 animali morirono in pochi giorni a causa delle acque contaminate; numero che purtroppo crebbe nei mesi successivi.

In seguito all’incidente, la Exxon Mobil mise in atto quella che, all’epoca, fu la più costosa operazione di bonifica ambientale mai realizzata: due miliardi di dollari furono spesi per pulire gli oltre 1 900 chilometri di costa inquinati dal petrolio della nave. Nonostante ciò l’impatto ambientale del disastro è stato tra i peggiori della storia. Lo stretto di Prince William ospitava un ricco ecosistema marino, composto prevalentemente di piccoli anfratti e scogliere ed è in queste insenature che andò ad accumularsi la maggior parte del petrolio, distruggendo gli habitat delle specie acquatiche che vi abitavano, e inquinando i luoghi di nidificazione di moltissimi uccelli. Le statistiche ci dicono che a seguito dell’incidente morirono oltre mezzo milione di uccelli marini, circa mille lontre, moltissime foche, aquile calve, orche, oltre a milioni di pesci.

Maria Cristina Finucci e il mondo di plastica

È la Great Pacific Garbage Patch chiamata anche Pacific Trash Vortex, Eastern Garbage Patch o Great Garbage Patch, ad occupare le prossime riflessioni sui danni prodotti dall’uomo al pianeta. Mentre Monteiro immortala (Fig. 5) uno spirito su una montagna di plastica e rifiuti con una bambola in mano a denunciare la mancanza di futuro per le giovani generazioni, sulle carte geografiche la Great Pacific Garbage Patch non viene segnata e dal satellite non è visibile; eppure nell’Oceano Pacifico esiste un’isola di plastica grande quanto il Texas! Conosciuta anche come Settimo Continente o Continente di plastica, si tratta di un immenso accumulo di rifiuti, situato in un’area del nord Pacifico dove le correnti fanno confluire gran parte degli scarti di plastica abbandonati dalle navi in transito o scaricati in mare dalle coste del Nord America e dall’Asia, tra il 135° e il 155° meridiano ovest e il 35° e il 42° parallelo nord, tra le Hawaii e la California. L’accumulo è noto dalla fine degli anni ‘80 del secolo scorso, e ha un’età di oltre 60 anni. Si tratta di oltre 21 000 tonnellate di microplastica, in un’area di qualche milione di kmq con una concentrazione massima di oltre un milione di oggetti per kmq. Sebbene la mole di materiali sia enorme, la massa è costituita da microplastiche non visibili a occhio nudo. Non si tratta di un agglomerato ben tangibile, ma non per questo ne derivano meno danni. La maggior parte degli elementi che formano il Trash Vortex proviene dal carico dei container accidentalmente caduti in acqua, oltre che dai rifiuti che normalmente vengono gettati in mare. “Gli effetti per l’ambiente non sono stati ancora studiati in maniera approfondita e appaiono di difficile valutazione data l’estensione del fenomeno e le scale temporali associate, ma sono probabilmente importanti. Si pensi soprattutto alle alte concentrazioni di PCB (molto tossici e probabilmente cancerogeni) che possono entrare nella catena alimentare visto che i filamenti plastici sono difficilmente distinguibili dal plancton e quindi ingeriti da organismi marini, ma anche alla capacità della microplastica di fornire un supporto alla proliferazione di colonie microbiche di patogeni. Più in generale, è preoccupante la presenza di rifiuti pervasivi e tossici, in un ecosistema fondamentale, durante periodi di decine o centinaia di anni”. I detriti, unendosi, diventano anche più pericolosi degli inquinanti organici persistenti (Pop), ovvero delle sostanze resistenti alla decomposizione chimica presenti nell’atmosfera e nell’acqua. Alcuni inquinanti sono classificati come cancerogeni, altri come veleni. La maggior parte dei materiali è di natura inorganica, per cui non è sottoposta al processo di biodegradazione. La fitodegradazione scinde la plastica in polimeri, che difficilmente si disgregano. I tempi di azione della fitodegradazione sono, d’altra parte, eccessivamente lunghi per essere considerati utili per lo smaltimento dei materiali. Naturalmente l’ecosistema non resta immune dalla presenza dei rifiuti. Molti animali si cibano della plastica e in molti di loro sono stati trovati migliaia di frammenti di plastica. La nocività dei rifiuti non solo provoca la morte di molti esemplari e danneggia le specie biologiche, ma va ad intaccare anche la catena alimentare, arrivando a colpire indirettamente anche l’uomo.

La Great Pacific Garbage Patch non è solo un disastro ambientale incalcolabile ma è anche la terribile metafora del fallimento del nostro modello di sviluppo. È un’isola in mezzo all’oceano, quindi non è di nessuno, e nessuno se ne assume la responsabilità, tanto che i dati scientifici sono frammentari e acquisiti per la maggior parte grazie ad associazioni ambientaliste come la SEA (Sea Education Association) che ha raccolto i dati dell’ultimo studio pubblicato su Environmental Science & Technology.

Delle isole di plastica e, più in generale, della quantità di plastica che sta invadendo il nostro pianeta si è ampiamente occupata Maria Cristina Finucci, artista, designer e architetto, che ha deciso di dedicare la propria vita alla salvaguardia dell’ambiente, senza però mai abbandonare il suo amore per l’arte. L’Artista ha acquisito fama internazionale nel 2013 quando ha fondato il Garbage Patch State, uno Stato, riconosciuto dall’UNESCO, con un’estensione di oltre 16 milioni di chilometri quadrati che può essere identificato con le cinque maggiori isole di plastica presenti negli oceani.

Lo Stato Federale del Garbage Patch è quindi costituito da oggetti di plastica appartenuti ad ognuno di noi e che, consapevolmente o meno, sono stati abbandonati nell’ambiente. Il fine del progetto della Finucci è quello di rendere presente alla popolazione mondiale il drammatico problema delle isole costituite da microplastica delle quali, essendo invisibili ad occhio nudo, ne ignoriamo l’esistenza.

Collegata al problema della plastica vi è inoltre una serie di opere d’arte concettuali sempre prodotte dall’Artista che prendono il titolo di Wasteland, il cui nome fa riferimento a The Waste Land, il poema del 1922 di T. S. Eliot. Wasteland consiste in una serie di azioni, ad oggi dieci, realizzate in varie città del mondo (da Venezia a Madrid, da New York a Roma) per comunicare l’esistenza del Garbage Patch, uno dei più importanti fenomeni di inquinamento ambientale. Per realizzare le sue opere Finucci prende come punto di partenza sempre lo stesso soggetto, un enorme accumulo di plastica che, a seconda delle occasioni, assume forme diverse, dai vortici, ai serpenti, alle creature mostruose, proprio per sottolineare la situazione fuori controllo di un fenomeno che può essere domato solo con la consapevolezza reale del problema e la collaborazione di ognuno di noi, attraverso un consumo consapevole.


Figura 6.  Wasterland, Maria Cristina Finucci, Parigi, 2013.
http://www.garbagepatchstate.org/ita/gallery.html

Figura 7.  Padiglione del Garbage Patch State alle 55° Biennale di Venezia, 2013.
http://www.garbagepatchstate.org/ita/gallery.html

A Parigi, presso la sede dell’UNESCO, nel 2013, è stata realizzata la prima opera del ciclo artistico Wasteland, un’installazione (Fig. 6) costituita da una distesa di tappi di bottiglia che riproduce una delle isole di plastica in cui l’artista ha piantato la bandiera del Garbage Patch State.

Durante la Biennale di Venezia dello stesso anno, venne proposto all’Artista di realizzare un’installazione per il padiglione del suo Garbage Patch State ormai riconosciuto al pari degli altri Stati del mondo. Ha così avuto origine un’installazione di successo mondiale, costituita da tappi di plastica colorati che, salendo sui muri del palazzo quattrocentesco dell’università Ca’ Foscari, cercavano di raggiungere le acque della laguna (Fig. 7).

In occasione dell’Expo 2015 a Milano è stata realizzata la sesta opera della serie Westeland: un vortice d’acqua, alto più di sette metri, allo stesso tempo simbolo di vitalità e distruzione, portava con sé migliaia di tappi colorati di bottiglie.


Figura 8. Maria Cristina Finucci, Vortice, Fondazione Bracco, Milano, 2015.
http://www.garbagepatchstate.org/ita/gallery.html

Il vortice d’acqua partendo dal basso e guidato dalla forza centrifuga, sembrava elevarsi all’infinito, trascinando qualsiasi oggetto plastico trovasse sul suo percorso (Fig. 8).

L’installazione più recente risale all’estate del 2018, in una location ricca di storia e famosa in tutto il mondo: i Fori Romani. L’opera, in questo caso, è costituita da gabbie di ferro ricoperte di tappi di plastica. Ogni singolo tappo contribuisce a realizzare l’opera che non è semplice spazzatura perché rappresenta il lavoro di migliaia di persone che si sono impegnate a riciclare le bottiglie di plastica, poi assemblate dall’Artista e dai suoi collaboratori in questa installazione.

È questo il comportamento esemplare che vuole essere trasmesso: la plastica, non come rifiuto, ma come risorsa attraverso il riciclo. Le gabbie sono state esposte nei Fori per tutta l’estate, come se fossero un ritrovamento archeologico di epoca romana, premonizione di un futuro non molto lontano, essendo già oggi, la nostra epoca, conosciuta come l’età della plastica. Solo con una visione aerea però, si può scorgere il grido d’allarme che il pianeta ci rivolge.  Le gabbie sono posizionate in modo tale da formare la parola “Help”, una richiesta di aiuto da parte del pianeta che non possiamo ignorare (Fig. 9).


 
Figura 9.  HELP The Ocean”, 9 giugno 2018 – 29 luglio 2018, Fori Romani, Roma.
https://www.bitculturali.it/2018/06/mostre-eventi/roma-help-finucci-fori-imperiali

Con la geografia verso il “Terzo Paradiso”

La geografia da anni non è più la una “geografia degli uomini ma senza persone”. Come ben ricorda Vallerani: “Contemplare significa rallentare, sapersi fermare, respirare con profonda serenità, nominandosi con la profonda fisicità del camminare, annusare l’aria, capire quanto sa di pioggia, o immaginare l’arcaica ciclicità delle stagioni quando il profumo di legna che brucia in una stufa ri accoglie nel silenzio invernale di un villaggio appenninico, ma è lo stesso nei Pirenei, nelle sierras cantabriche o negli altopiani sloveni percorsi dalla bora” (Vallerani, 2013, p. 13).

La contemplazione è tutto il contrario della superficialità che deriva dalla bulimia informativa: serve a sviluppare le percezioni, in modo da stimolare il processo cognitivo di risonanza interiore, riaccendendo le personali eloquenze della memoria, oggi sempre più atrofizzate da percorsi esistenziali solo omologanti che di fatto non fanno che annullare il nostro approccio poetico ai luoghi e ridurre le strategie radicanti, che sono alla base di una consapevole territorialità. Il calarsi in una dimensione esistenziale fa in modo che ci si possa riappropriare delle etiche elementari che governano le relazioni tra l’Io e le cose.

Siamo ormai consapevoli che lo “spazio”, genericamente inteso, rappresenta la semplice sintassi dell’ambiente naturale e che grazie all’esperienza umana soggettiva esso diventa “territorio”. Un territorio è quindi uno spazio naturale che viene organizzato e trasformato attivamente, in positivo o in negativo, dagli individui e dai gruppi sociali che lo abitano; in particolare il “luogo interiorizzato” è il territorio che viene rappresentato dai vari soggetti del loro vissuto, con le loro attività, con le loro tradizioni e, soprattutto, con le loro culture; è quindi uno spazio profondamente “semanticizzato” che viene continuamente animato dai significati che nel corso del tempo il soggetto costruisce nella propria mente. “È nei luoghi, cioè negli spazi vissuti, che si genera ed articola l’esperienza della soggettività umana, l’ambito nel quale la vita psicologica si àncora e sviluppa” (Fremont, 1978).

In un momento storico di passaggio epocale che giorno dopo giorno diviene più drammatico, occorrono strumenti per orientarsi, come bussole nel deserto. Sono indispensabili nuove prospettive di pensiero e di azione che convincano le persone dell’importanza di acquisire una vera consapevolezza del proprio ruolo nella costruzione del prossimo futuro dell’umanità.

Una fotografia, affermava Adams, è grande quando riesce a esprimere pienamente i più profondi sentimenti del suo autore nei confronti di ciò che viene fotografato, divenendo così una genuina manifestazione della sua sensibilità nei confronti della vita considerata nella sua pienezza.”. Ma anche: “Non c’è niente di peggio di un’immagine nitida di un concetto sfuocato”: fotografie nitide, tralasciando spesso il contenuto delle stesse o, ancor peggio, pensando che la nitidezza da sola sia sufficiente a far diventare eccezionale un’immagine che, in realtà, non esprime nessun concetto, convinto che “Una fotografia non viene mai realizzata esclusivamente per se stessi; è, o dovrebbe essere, un mezzo di comunicazione per raggiungere il maggior numero possibile di persone senza diminuzione di qualità o intensità”.

Spesso si sente parlare di una generale insostenibilità che caratterizza la nostra esistenza e in questo clima di incertezza Michelangelo Pistoletto ha avviato un proficuo dibattito su molteplici temi, dall’ambiente alla sopravvivenza umana sulla Terra, dalla politica all’economia, dall’educazione alla spiritualità attraverso il Terzo Paradiso. Come ebbe a dire l’Autore nel giugno del 2004 a Torino: “Ho pensato a un segno che fosse allo stesso tempo un riferimento al passato, una considerazione del presente e una proiezione nel futuro. Il segno matematico di infinito, composto da una linea continua che disegna due cerchi, consentiva questa sintesi. In un cerchio s’iscrive il passato più remoto, il tempo in cui l’essere umano era totalmente integrato nella natura, nell’altro cerchio s’identifica la seconda fase del passato, quella in cui l’uomo si è svincolato dalla natura con un processo che ha portato al mondo artificiale che viviamo oggi. … Unitamente alle meravigliose conquiste raggiunte con il progresso tecnico, si sono venute a creare … condizioni catastrofiche che minacciano la sopravvivenza dell’umanità. … Nel presente si concentra una pressione fortissima, dovuta alla tensione, esponenzialmente cresciuta nell’ultimo secolo, tra la sfera naturale e quella artificiale. Ho sentito la necessità di liberare da tale pressione il punto cruciale che lega i due cerchi, aprendo un terzo cerchio: un’area pronta ad ospitare il tempo futuro. Si è formato così il triplo cerchio, simbolo del Terzo Paradiso. Dal cerchio centrale, come in un ventre materno ingravidato dai due paradisi precedenti, naturale e artificiale, nasce la nuova umanità” (Pistoletto, 2015). Per la riapertura al pubblico del Mitreo delle Terme di Caracalla Pistoletto nell’ottobre 2012 ha creato nel giardino il nuovo segno di infinito utilizzando reperti archeologici selezionati tra marmi e mosaici appartenenti alle Terme stesse (Fig. 10). È questa una delle molteplici occasioni nelle quali l’Artista in modi differenti e con materiali tra i più disparati ha dato vita in vari Paesi nel corso degli anni al Terzo Paradiso. L’arte diviene motore di trasformazione sociale responsabile in tutti i settori del vivere civile, da quello umano a quello economico a quello ambientale. Come un profeta Pistoletto si sposta tra Guimarães, Galbiate, Milano, Biella, Graz, Pechino, Venezia, Montevarchi,  Bordeaux, Londra, Susa, Catanzaro, Assisi, Madrid, Lugano, Minsk, Verona, Parma, … per illustrare e installare il simbolo del rinnovamento verso un futuro non utopico, imbevuto di speranze metafisiche, bensì un nuovo stile di vita che sappia convogliare le energie mentali e pratiche di tutti per realizzare l’equilibrio tra natura e artificio, ragione e sentimento, individuo e società, pubblico e privato, globale e locale.


Figura 10. Il Terzo Paradiso alle Terme di Caracalla.
https://www.artribune.com/tribnews/2012/10/dalla-moda-milanese-allantichita-

Quanta verità nelle parole di Pistoletto; pensiamo, ad esempio, ai molti interventi di ri-qualificazione moderni che modificano gli impianti urbani esistenti per destinarli allo svago, ai luoghi “dell’utopia d’evasione”, siano essi destinati allo shopping o alla movida, allo sport o al benessere, a realizzare parchi urbani, acquari, … realizzano macchine per il divertimento dove spesso proprio l’artificioso diviene un richiamo irresistibile. La Disneyficazione dei luoghi è un fenomeno particolarmente complesso con aspetti contrastanti che vanno considerati ed indagati non solo dal punto di vista strettamente turistico ma anche sociale  e territoriale.

Parafrasando Karl Popper il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti, da ciò che voi e io e tutti gli altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani. E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori. Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte. Un futuro che, come disse Albert Einstein: “Arriva così presto” e che: “appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni” (Eleanor Roosevelt). Purtroppo ci siamo indebitati con il futuro per pagare i debiti del passato ma il passato non si può ricreare. Si può fare finta, ci si può illudere, ma ciò che è finito non torna, non torna più. Dobbiamo quindi abituarci a pensare al futuro secondo un approccio che tenga conto della complessità del paesaggio e della necessità di interventi interdisciplinari.

Se, per esempio, pensiamo di riqualificare il paesaggio di una città metropolitana, occorre come prima cosa umanizzare e rendere gradevoli e riconoscibili i quartieri dell’espansione recente e nello stesso tempo restituire decoro alla città consolidata, risolvere il problema delle periferie anonime e dispersive, e non affidare alla casualità le relazioni tra aree urbane e territorio rurale. È indispensabile agire nella complessità territorio/ambiente/paesaggio, con strumenti affinati da un sapiente insieme di percezione, visione e pragmatismo, con l’idea, concreta, che si deve dare un personale contributo allo sviluppo ed alla tutela del territorio con azioni e non con la dialettica evasiva ed imperante. Norme, Leggi, Enti, che gravitano sul paesaggio e sulla trasformazione territoriale, hanno un ruolo importante nel futuro del paesaggio, soprattutto per quanto riguarda il permanere della libera espressione di una cultura materiale locale, tante volte spentasi a favore di modelli di intervento estranei ed artificiosi. Molta parte dei nostri paesaggi recenti sono purtroppo il risultato solo di un insieme complicato, ed a tratti perverso, di implicazioni burocratiche, che, nel tentativo di guidare la crescita e la trasformazione, hanno solo contribuito ad omologarla. A Burano, al contrario, il variopinto fronte delle abitazioni sulla linea di costa, è nato, in tempi lontani, dalla necessità dei pescatori di riconoscere la dimora direttamente dal mare. Ciò ha prodotto un paesaggio di immenso valore, nato da una esigenza funzionale, un esempio di come la spontaneità delle azioni sia in grado, senza rimando a norme e leggi, di auto regolamentarsi e di produrre interventi di grande poesia, coniugando forma e funzione. La spontaneità, quindi, è un valore da enfatizzare nella costruzione del paesaggio e una grande sfida per il futuro, per non ingabbiare molti processi di sutura e ricostruzione dei paesaggi con un apparato normativo troppo stringente, ma cercando di assecondare anche scelte coraggiose dettate dal luogo e dai suoi aspetti formali, percettivi ma anche, e soprattutto, sociali e culturali. Purtroppo il nostro quotidiano è spesso assoggettato al ricatto continuo del consumo, un consumo sostenuto dall’immagine: consumiamo immagine reiterando la negazione del riconoscimento della stessa, arrivando ad una forma di “anestesia” generale, incapaci di saper riconoscere. La differenza diventa in-differenza. Il compito del geografo è quello di porre un lavoro attento, lucido e puntuale sulla differenza: occorre lavorare sul riconoscimento delle singole parti e in questo senso impegnarsi con rigore per riportare l’estetica ad essere figlia dell’etica. In questo “potpourri mediatico” di immagini, la tentazione di chi opera nel e sul paesaggio, sia esso l’architetto, il paesaggista, il giurista, scivola spesso nella notazione auto celebrativa, si fa forte di grandi effetti speciali, sposando la richiesta di marketing di triste “sapore griffabondo”, che nei suoi linguaggi autoreferenziali diventa franchising: si perde quindi la narrazione di una specificità, di un racconto attento alla differenza di un territorio, nelle sue singole storie descritte.

È importante imparare a riconoscere, a tutelare, a valorizzare la ricchezza delle differenze presenti in ogni paesaggio, che devono diventare capitale culturale comune, nella costruzione di una nuova realtà, anche se ora viviamo in una società liquida in cui tutto cambia velocemente, il consumo ne diventa il motore, e l’idea del tempo e dello spazio vestono un ruolo di mobilità̀ continua. Tra i temi più importanti che la società contemporanea si trova certamente ad affrontare vi sono quelli legati alla gestione degli spazi, sia di quelli centrali, storici, che tendono a diventare la rappresentazione di luoghi di cui hanno perso parte della natura stessà (ne è un chiaro sintomo la tendenza dei centri storici ad essere visitati da turisti e non più frequentati dai residenti), sia di quelli periferici, che in molti casi devono essere rivisti e riqualificati in funzione dell’attività svolta e della distribuzione delle infrastrutture. In quest’ottica gli spazi pubblici non possono essere solo elementi di passaggio, come spesso accade ma, al contrario, devono diventare spazi per le ormai evanescenti, e forse temute, relazioni sociali. Ci troviamo oggi a doverci confrontare sul domani del nostro pianeta e per raggiungere questo obiettivo occorre il confronto tra diversi contributi disciplinari, esperienze locali ed internazionali, progettisti e tecnici, studiosi di diverse discipline e “gente comune” nel tentativo di superare la logica della contrapposizione (a favore o contro), per confluire nella logica del “come fare”, anzi del “come fare bene” o, “come fare meglio”. Si devono, quindi, superare le nozioni di “mitigazione” o di “compensazione”, intese come interventi ex-post finalizzati a “nascondere”, a “mimetizzare” o a “risarcire un “danno”, ponendo ogni progetto in relazione sia alle componenti paesaggistiche ed ambientali, ma anche urbane, sociali e culturali, elementi imprescindibili del processo di trasformazione territoriale. Dobbiamo credere di essere al mattino di un nuovo giorno nel quale il “bene comune” sia l’obiettivo di ogni agire umano.

Maria Laura Pappalardo
Presidente Festival Terra2050

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